
Ci sono i Piani Urbanistici.
Poi i Ripiani Urbanistici.
I Ripiani.
Tipo quelli della credenza, che in uno ci metti i piatti, nell’altro le arbanelle, nell’altra le spezie, e via così, uno sopra l’altro.
Che le credenze servono a organizzare lo spazio, per infilare bene tutto. Ottimizzare lo spazio.
Che, per la città, sarebbero i Piani. Che invece, in città, se usi i Ripiani Urbanistici è che, per metterci tutto, infili una cosa dietro l’altra finché, semplicemente, non ci sta più niente
Ma se poi devi prendere l’arbanella dietro, in fondo, dentro a quel casino, è un problema.
Anzi, un problemissimo.
Che per la credenza è solo un problemissimo, che te la prendi con Giovanni che non mette mai le cose bene.
Per la città invece è un gigantesco manufatto collettivo. Monumentale.
Gigantesco. Così incastrato che diventa un dato di fatto, come le montagne.
E le colpe dei vari Giovanni diventano, lì dentro, contributi così bricioleschi, nella costruzione di quei pezzi, umani, di pianeta, di quegli incommensurabili costrutti culturali, che non sono neanche, poi, colpe.
Che, allora, se cammini, e ci vivi, in mezzo a quelle valli, caverne, strade interne, esterne, appartamenti che partono da palazzi e si infilano nei muri, strade che si arrampicano sui ripiani delle residenze, piazze e campetti sospesi, dovresti stordirti di meraviglia.
Che insieme a scomodità, sofferenze, ingarbugliamenti fisici, e psicologici, danno così tanto stupore che la colpa sembra un merito, di una mente genialmente creativa.
Che poi ti ci abitui. Anzi, ci nasci abituato.
E quindi non si genera neanche l’afflato di desiderio di meglio per il confronto con la scomodità sofferente, e neanche lo stupore che dovrebbe avere ogni bambino, guardando questa città, con la bocca spalancata come quando si guardano i “baracconi”, le giostre.
La consapevolezza di ogni diversità, che poi è l’entusiasmo per ogni identità, dovrebbe essere la base della conoscenza di ogni città.
E di Genova.
Che, si dica quel che si dica, di identità ne ha in esubero.
Ma non lo sa.
Perché l’identità è, anche, una faccenda di confronti.
E Genova, parlando in generale, si guarda troppo da sola.
E vive in un’epica scontenta di quel che non ha e ignara di quel che ha.
Che, ad accettare i confronti, potremmo fare meravigliare tutti i bambini.
Che magari viene voglia di viverli con vitalità, tutti quei ripiani
Si, lo sappiamo: non sappiamo se siamo finemente lucidi o confusi.
Che è un effetto delle città, e di Genova