
Post nella tradizione dei “post sconclusionati”
Quale è oggi la “forma di una città”?
(per rubare il titolo al libro del conterraneo e, per conseguenza, tormentato dal trovare il senso delle città, Federico Rahola. Ma solo il titolo, perché ci serve e ci fa fare bella figura. Solo il titolo perchè la sua meditazione è più contemporaneamente essenziale e meno populista della nostra. Come sono alcuni aspetti, ahinoi, di tutti i nostri post)
Ognuno di noi. Anzi, diciamo molti. No, forse una minoranza.
Maperò, sicuramente senza rendersene conto molti (ecco, si, rimaniamo così, su questa ipotesi statistica formulata “a sentimento”) quando girano per una città incocciano riferimenti di periodi, di stili, di atmosfere, di vissuti. E, allora, vedono “la città romana”, “la città medioevale”, “la città razionalista”, “la città di un tempo”, la città del futuro”.
Ma, in realtà, spesso, non stanno guardando la città che hanno “di davanti” ai loro occhi.
La città “di davanti” è solo un innesco per guardare le città che hanno in testa e che si immaginano. O che desiderano. O che rimpiangono, pur senza averla conosciuta, per sentito dire da poeti e scrittori.
Quale è la forma di una città oggi?
Beh, sicuramente, ogni città ha la sua (ve lo avevamo detto che siamo più che populisti, siamo ovvisti) ma diremmo che molte città del mondo, soprattutto quelle che hanno una storia sono, sovente, un insieme arrotolato di epoche, stili, rimasugli, bubboni architettonici e urbanistici, rovine, abbandoni, ipertrofie progettistiche. E non può che essere così, da quando l’umanità, un paio di secoli fa, ha innestato il turbo.
Il gioco di girare per la città e contemplare tutte le città che abbiamo in testa, e che i pezzi di quella che abbiamo davanti ci evocano, è bellissimo. Ma è utile anche avere lo sguardo sul guazzabuglio che abbiamo davanti, parlando di Genova, e dire: questa, al di là di tutti i risuoni che mi fa, è la forma della mia città.
Ipnoticamente informe ma somma di tantissime forme. Forme umanamente, e non naturalmente, elaborate
Il pezzo dopo è dire: “E mo’ che famo?”. O meglio: “Che vorremmo fare?”
Ma per questa domanda non siamo, qui in città, ancora pronti. Che, ultimamente, quando abbiamo spinto sul “fare” abbiamo accumulato inciampi urbanistici che ci troveremo tra i piedi per decenni, se va bene.
Non siamo pronti, per provare a dirimere le questioni tra i secoli passati e quelli futuri, passando attraverso i desideri e le aspirazioni. Dobbiamo ancora esercitarci a vedere tutte le parti di città, e vocazioni, e impeti che esistono e coesistono. Imparare a coglierne l’identità. E poi, ma poi, saremo in grado di proporre un ordine. Forse.
Nel frattempo chi sa farlo infilerà progettini qua e là, magari talvolta anche progettoni riusciti, ma perlopiù improvvisazioni.
Che non è facile mettere mano su un’opera millenaria. Non siamo pronti.
Per ora meglio limitare i danni da: “Io ho capito di cosa Genova ha bisogno!” e promuovere pensiero intorno alla città. E sistemare l’uso dell’esistente. E sanarne le ferite, urbanistiche, ma adeguatamente, morbidamente. Che quando verrà una grande idea si capirà da sé.
Intanto facciamo di meglio per usarci la città che è.
Che non esiste ancora l’intelligenza artificiale capace di creare cose così. Vere. Trafilate da millenni di idee, scopi, casualità, vita.
Godiamocela, sapendo, però, che la forma della città forma la nostra forma. Dei nostri pensieri, delle nostre idee, del nostro avvicinarsi al mondo, dei nostri piedi, della nostra socialità e cultura. E che una città che è un casino scomodo (e Genova è così) tendenzialmente crea vite scomode
Godiamocela, sapendo, però, che un bambino che nasce in sto’ casino… da sto casino verrà, in parte, formato.
E la mente di un bambino nato e cresciuto nella meravigliosa cultura matericamente e creativamente multiforme di un Centro Storico, dove ogni serialità e noiosa ugualità, può solo essere immaginata (perché, fortunatamente, lì non esiste), sarà impostata, almeno un po’, diversamente da un bambino nato nell’ordine elegante, da vecchia zia, della piana di Corso Torino o, ancora diversamente, dal bambino cresciuto in quel caleidoscopio casuale che è Borzoli che mischia zone industriali a vivai, orti a palazzoni noiosoni, creuse agricole macerate, a casermoni industriali d’altri periodi.
Godiamocela, sapendo, però, che la varietà è divertente, educante, stupefacente. La scomodità di vita, in una città, è solo scomodità. Magari circondata da poesia, magari poetizzabile ma, essenzialmente, senza poesia.
(Per non dire dell’insalubrità, di vita)
Godiamocela sapendo che una certa fretta c’è.
Che la crisi della città prosegue da un cinquantennio, a dir poco.
E la sua vocazione da suburbia (che fa assonanza con superba), inteso con le accezioni di sobborgo, volendo dire intrinsecamente marginale anche se contiene bellezza, è sempre più realizzata
(Qui una visuale da “dentro” Villa Pallavicini, Durazzo, a Pegli, sul un terrazzone e, in fondo, sulla nuova Pegli. Che 4 o 5 tipi di città, questa vista, ce le evoca. Che dolore che ci danni gli, forse inevitabili, innesti metallici lungo il contorno. Ma per evocare, per essere proiettati in territori abbacinati dall’estetica ci basta la sconfinata tavolata del “pavimento” della terrazza che, probabilmente, in origine, si contrapponeva con la tavolata del mare e, con quella, voleva gareggiare, in bellezza)