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Uno foto – L’Albergo dei Poveri

Una foto

Ma d’agosto
Che è la cornice che più ci influenza quando siamo a Genova, appunto in agosto
Inoltre la nostra parte più poetica è tornata dal Perù. E la frittata e fatta

E Voi tutti, che non amate i post lunghi, ma solo i mordi e fuggi, una notte e via, un amore estivo, un post veloce, potete anche fermarVi qui.
Che se continuate, poi, non lamentateVi della lunghezza

Che Genova, ad agosto, non la trovi, in giro, soprendentemente vuota, ma la trovi svuotata, come sempre. Magari che si mostra nella sua vuotezza in modo ancora più limpido.
E fa angoscia, almeno a noi

Sembra che la città si svuoti ancora di più, quando la luce è estiva e generosa, per permettere a noi appassionati di architettura, di far foto sublimi, surreali, iperboree, in una città modellino, vuota e decadente. Che cose così mica le trovi facile in giro

Qui c’è una costruzione che già nella sua “nomea”, peraltro storicamente fondata, evoca epiche, storia, catastrofi, e i modi con i quali la città le attraversa. E questo solo dicendo il nome: “Albergo dei Poveri”.

E questa foto è fortunata, quasi casuale
E si vede un sopra e un sotto
E poi la cromia, data dallo stato e colori degli edifici, dalle ombre, dai segni casuali, e in un certo senso quindi perfetti, del tempo, dell’usura, delle tinte e ritinte, della macerazione. Un sopra e un sotto che sembrano due pezzi di un modellino “Wargames” che mischia due diverse storie fantasy

E poi dipende chi lo guarda
Un “turista” vedrebbe due parti di complesso architettonico, una tenuta bene, una lasciata andare
E sarebbe finità lì. Poi immaginazione libera, a sentimento.

Un genovese può vederci tanto d’altro. Perché sa, perché ha visto sfilare questo edificio attraverso i decenni. E non può non guardarlo sovrapponendolo a quello che sa.

E vede un edificio grandioso. Con una parte sopra rimessa a nuovo. E una sotto, che ospitava vita cittadina artigianale fino a poco fa (o forse ancora ora). Ancora da mettere a posto.

E l’edificio sopra che divenne Università, e prima fu “l’Albergo dei poveri, vecchi”. Edificio che è stato amputato più di un ventennio fa. Amputato come quei casi in cui si dice: “Per salvare l’ammalato bisogna amputare”
E l’amputazione, ha fatto spazio, guarda un po’, a un parcheggio, e ha tolto anche un pezzo di passeggiata della via di sopra con vista e ha dato, come conseguenza, apertura, e uso, alla valletta dietro
E il genovese, sa che l’edificio di sopra è ancora in parte come quello di sotto, in macerazione. E che l’amputazione, alla fine, non ha salvato il paziente e non era neanche necessaria. Anzi, magari il paziente si sarebbe ripreso meglio
E ora si muove tra Università, ancora servizi sociali (la sua vecchia identità), Aster (che se lo merita di essere in un edificio macilento), eterne promesse di realizzare l’Eden nella valletta di sopra, e ha visto, nella parte di sotto della foto,  l’attività del fabbro saldatore “Drago”, che mai mostrò più felice connubio di nome e lavoro.

L’Albergo dei poveri è uno di quegli edifici che determina, influenza, e sa essere sontuoso anche metà in abbandono, o quasi.

Nessun genovese vedendolo ha solo sentimenti di dispiacere. Ma si bea anche della sua grandiosità
Grandiosità che univa finalità generose ed invidiabili (abolire la povertà….), grandioso nelle fattezze, grandioso, così grande e autorevole che permane, e, possiamo dire, influenza, in bene, un quartiere

Ma, in questo stato di svuotamento Genova non ha la forza di trovarne un uso che lo rivitalizzi come si deve
Perché lui era stato costruito per contenere moltitudini, anche inquiete
E oggi moltitudini non ne abbiamo. Ne inquiete né quiete

Magari le raduniamo per una maratona colorata spot, ma moltitudini in grado di riempire giorno dopo giorno giardini, edifici, università, piazze, spazi sociali, eccezioni escluse, non ne abbiamo

Perché abbiamo una città costruita per 850.000 persone e ne abbiamo 550.000
Che poi uno dei modi di capire affettuosamente la Genova di oggi è tutto qui

Più che di spazi abbiamo bisogno di persone da metterci dentro, a viverli. E per non andare sempre di più verso una realtà sociale di associazioni unipersonali è meglio attendere un ripopolamento. Che, ad oggi, non si vede come.

Ma qualcosa succederà
Ne siamo sicuri
La storia della città lo chiede. Anzi, l’attira
E poi siamo attaccati al Porto che produce l’1,5 del PIL italiano
Non ci lasceranno soli

E L’Albergo dei poveri, per noi, in questo 13 agosto, diventa anche il simbolo della città che aspetta di riconnettersi al passato pieno, ma in modi futuri. Riconnettersi a quando era abitata
Attendono i vecchi e nuovi Parchi, di Nervi, Gavoglio, Fascia di Rispetto di Pra’, e le tante piazze. Non solo i posti turistici, che quelli ormai son a posto. E non solo “con un po’ di gente”, ma piena, vitale
E con tutta la forza di quel 30% in più che abbiamo perso

O forse no
Perché le soluzioni sono due
O ti attrezzi a una città ricalibrata con meno residenti o se contini a tendere a una cittadona allora poi devi organizzarti, e fare qualcosa

E quel qualcosa non si capisce bene quale sia
Sicuramente non nuovi supermercati, o nuovi quartieri di lusso però un po’ farlocchi, o affidarsi al turismo confondendo le presenze i chi passa con chi rimane, o citare numeri stellari come si faceva quando vivevamo nelle caverne dipingendo cacce fruttuose per evocarne l’accadimento futuro

Che prima eravamo città potente, poi interessante, culturale e balneare, poi industriale, e poi, tolto il potente, l’industriale e il balneare siam rimasti rimasugli di quelli
Ma che rimasugli!

L’Albergo dei Poveri!
E tutto il resto

E questi giganteschi rimasugli han generato, tra le diverse conseguenze, una estetica del macilento (di cui noi siamo esponenti e vittime) che normale non è. Una estetica del vecchio continente ma che in città ha preso vie specifiche
E tende a vedere la bellezza nella citazione, nell recupero, nell’intessuto e reintessuto fino a perdere la visione della trama originaria, nell’organizzarsi in mezzo alle rovine.

Ci diceva una bambina piccola, di un altro continente, in un giro tra famiglie in città, di fronte al nostro ennesimo: “Hai visto che bello quel palazzo?”: “A me non piace tanto, a me piacciono i palazzi dipinti bene, non rovinati, puliti e non sporchi”
E non abbiamo detto più niente
Perché ci siam resi conto che lei era normale, e noi e tutte le nostre famiglie genovesi no. E nel giro non abbiamo più incontrato nessun palazzo che fosse bello ma senza essere, almeno un po’, macilento
Anche di fronte all’Albergo dei Poveri siam stati zitti
Non potevamo mica dire: “Ti piace la parte di sopra di quel palazzone”
Che per Lei il bello era roba pulita, e bentenuta
E di queste cose ne abbiamo poche

Ma dopo tutta questa, nostra, deriva, rimane il fatto che questa foto è una buona foto, per noi. Perché ci ha fatto vedere un’istantanea del palazzone che non avevamo mai vista. E che, presumibilmente, fra un po’, non vedremo più

Vedete quanto siamo ottimisti?