Le competenze, le tradizioni, le filiere di produzioni culturali informali, gli oggetti autentici di un luogo nascono per vari motivi.
A volte per una disposizione orografica che incontra una data cultura di un popolo, a volte per incapricciamenti della storia che trovano un contesto fecondo, a volte per sorprese o incidenti dell’incedere di una etnia.
A Genova le risulte architettoniche dei secoli dell’essere “Superba”, incontratisi con gli sviluppi del dribbling degli avvenimenti che scelsero l’industria, la statalizzazione e la conseguente superurbanizzazione popolare, mischiati con gli effetti dell’ultimo svuotamento della città hanno prodotto una tradizione, ancora in via di svolgimento, anzi forse nel momento di massimo fulgore, di “porte chiuse” che, come abbiamo già in passato sottolineato, son manufatti che tendono alla metafisica.
Qui, in una delle vie/creuse che partono verso il cielo, salita di Granarolo, troviamo un gigante del genere.
E allora vediamo un portone, di un legno che ti respinge e ti chiude con l’autorità e la vecchiezza delle proprie rughe, sommato a un altero cancello che ti ferma con l’eleganza ancora mostrata, e l’erba, che porta il segno e la firma del tempo lungo della chiusura, e le impalcature che minacciano che se si osa una altra apertura potrebbe essere l’ultima e, ultimo vezzo, la chiusura burocratica, un po’ codarda, del regno della burocrazia, delle transenne bianche e rosse che ormai, con la lanterna, la focaccia, il grifone e il pesto son diventate uno dei simboli di Genova.
E questa chiusura a più livelli, questa chiusura multi strati, da quelli dell’anima a quelli fisici, rimanda a una chiusura dello spirito, che ormai é caratteristica dei genovesi.
Ma non una chiusura di fronte a una porta di mero cemento, muto e solo stoppante. Una chiusura di fronte a una porta così meravigliosamente chiusa, con la ricchezza magnificente di una storia incredibile, che ti vien voglia di beartene, di questa chiusura. E dei ricordi della “Superbia” dei tempi passati che sembrano stagnare dietro quella porta.
Ci vuole forza per staccarsi da una chiusura così bella, così maestosa, così nostalgica.
Forse Genova deve affrontare la guerra più grande di tutte.
Come il Colonnello Aureliano Buendia ne i: “Cent’anni di solitudine” che, dopo aver passato metà della vita a creare un esercito rivoluzionario che si contrapponesse al governativo e dopo aver guidato mille battaglie decise che doveva smettere quel filone di vita, e la guerra.
E così inizio la guerra più sanguinosa di tutte. Quella per fermare quello che aveva messo su.
E non ci vuole solo forza e coraggio per cambiare gli incantesimi, o le inerzie. Soprattutto le inerzie di passati, o eredità, o eserciti maestosi che vanno avanti da sole, con la forza della propria credibilità d’immaginario.
(come in questi giorni, qualcuno, se volesse fermarla sarebbe persino difficile fermare la potente, e rossa, armata e le incredibili scommesse che ha messo in moto)
Non ci vuole solo forza e coraggio, ma anche una dedizione e una lucidità estreme.
E decidere di staccarsi dal proprio passato, da sé stessa per certi versi, per Genova é la sfida della storia vigente.
Smettere di guardare, ipnotizzati, quelle maestose porte chiuse e decidere di aprirle, che crollassero pure. Che, così come stanno, servono solo a rimbalzare indietro, eternamente, in un modo meraviglioso, i desideri di futuro.